Presentazione di Tommaso Trini a Zaffaroni per la Personale alla Galleria Cortina Arte a Milano (2014) ed alla Frankfurter Westend Galerie a Francoforte - Germania (2015)
La Seduzione delle Superfici di Tommaso Trini (2013)
Per poco che le si guardi, le strutture di Zaffaroni appaiono subito seducenti allo sguardo, alcune al tatto. Le “testure” sono spesso intrecciate tra il concavo e il convesso, i colori si annidano nelle superfici come nettare tra la luce e il buio. E’ ben evidente che l’alveo linguistico di questo artista lombardo è costituito dall’estuario dell’arte del percettivismo, dai molteplici rivoli, dove ai sensi della percezione sono rivolti di solito inviti espliciti di seduzione ottica o sinestesica - ma non solo. Su quest’opera si riversano talora onde di marea pop. Zaffaroni ha la qualità molto personale di intessere le sue superfici mentalmente squillanti di tocchi manuali e riverberi con echi artigianali, diversamente dai principali artisti op e percettivisti che declinano lo stile high-tech al futuro.
Breve riflessione sulle sinergie tra l’immagine e il corpo, dove per immagine si intenda superficie, dispositivo di rappresentazione. Tutti sanno come dalla pittura d’azione sia sorta la performance corporale. Si è fatto meno caso al processo inverso e però connesso, in cui tutti gli atti del corpo più o meno dipinto finiscono per depositarsi nel magnetismo dell’immagine, sulla superficie. La body art fu prodotta dal primo diffondersi dei media individuali e poi dalla video art. Ciò implica che gran parte del lavoro del corpo in evoluzione artistica è servito, nutrendola, all’evoluzione generazionale dei media tecnologici. Non passi inosservato il fatto che l’arte percettivista venne alla ribalta in contemporanea con l’action painting a cavallo del 1950, e che la performance art si formò in contemporanea con la nouvelle tendance nei primi anni Sessanta – sono dunque coeve oltre che convergenti ideologicamente, entrambe fondate sull’atto e l’energia di tipo liberatorio.
Tali movimenti si opposero tuttavia nell’alleanza coi media, i percettivisti tesero a costruire nuovi flash formativi, i performer si protesero a protagonisti dei flash informativi. Da qui, io ritengo, il divario storico tra l’ascesa costante dei performer (dripping, happening) e l’isolamento periodico delle varie forme di percettivismo. Le opere percettive e quelle concettuali si fotografano male.
Si noti ora quanto le superfici strutturali di Dario Zaffaroni siano più riproducibili delle superfici optical o dei congegni cinetici o delle primary structures a scansione topologica – è segno che sui loro piani scorrono sotto traccia elementi di figurazione, brividi di narrazione. Le ondulazioni in pressione fluorescente entro i piani dei suoi cicli di Cromodinamiche occhieggiano come sirene di cui diremmo, al pari dei fotoni, che sono tanto ondulatorie quanto corpuscolari. Passando dalla fluorescenza che ci illude sulla potenzialità delle opere d’arte di vivere di luce propria non riflessa, entro nelle semioscurità delle stampe digitali del ciclo Codice Cromatico Indeterminato, dove è questione, come nella fantascienza, di finestre informatiche su cui digitare con tutto il tuo corpo, mentre puoi immergere vista e mente in suntuosi paesaggi fino a lontani orizzonti. Le nostre percezioni amano farsi lussureggianti e non sono soltanto bulbi per il giardinaggio della gestalt.
Torno poi sempre con piacere a uno dei primi cicli “lumino-cinetico” che Zaffaroni mise a punto nel 1969 insieme con Dadamaino, ossia ai Rulli, che sembrano più etnici che optical, ma io considero i più filosofici. Questi “giochi visivi” che altrove definiscono “preghiere”, stanno a significare che – rullandoli – simili oggetti d’arte fanno un pezzo di strada insieme con i loro fruitori. I fedeli dell’arte notano subito la similarità di tali artefatti con i rulli tibetani del buddismo tantrico; quindi si scoprono in attesa delle combinazioni cromatiche che il rullare ha in serbo. Noi ci diciamo cattolici o ebrei per definire un’identità, i buddisti si dicono tali per intendere che loro “sono in cammino”. Gli artisti come Zaffaroni si dicono “ricercatori” senza appartenere a chiese.